A Copenaghen i grandi del pianeta si impantanano sulle decisioni da prendere in merito al clima.
E' atteso l'arrivo del presidente degli Stati Uniti, Barak Obama.
Nel frattempo, l'uomo piu' potente al mondo, il messia del tanto atteso cambiamento, ha ritirato il premio Nobel per la pace in una cerimonia tenutasi ad Oslo.
Mai tale prestigiosa onoreficenza ha creato tanto disarmante imbarazzo in colui che la riceve.
Obama di fatti, ha deciso di inviare altri 30.000 soldati nell'infinita guerra in Afghanistan, molti dei quali, non faranno piu' ritorno in patria.
Durante l'ultimo periodo di amministrazione Bush, si sarebbe gridato allo scandalo. Trasmissioni di approfondimento socio-politico, avrebbero dedicato tantissime ore sull'inutilita' di una guerra persa in partenza per la tipologia dell'ingaggio e l'impenetrabilita' del territorio - per questo motivo gia' si parla di nuovo Vietnam - Tale scelta sarebbe stata considerata scriteriata o quanto meno un vile espediente per arricchire l'industria delle armi, sicuro volano di crescita economica.
Le principali citta' dell'occidente sarebbero state invase da decine di cortei arcobaleno, organizzati da pseudo-pacifisti no-global, dove nel nome della pace si sarebbero bruciate tantissime bandiere americane precedentemente contrassegnate con una svastica nel centro.
All'improvviso con Obama, la guerra diventa giusta, utile, necessaria. Al conflitto viene data una motivizione positiva, un ruolo cruciale nella ricerca della pace. Detto da un appena insignito Nobel per la pace, sembra quasi di stare su scherzi a parte.
Lontano appare il periodo delle promesse elettorali, quando sembrava che il destino del mondo dovesse davvero cambiare - la parola change era assai ricorrente.
Lontano e' il tempo delle oratorie pubbliche, dove brulicanti masse oceaniche di convenuti esclamavano all'unisono con il candidato democratico alla Casa Bianca, quello che poi divenne lo "spot" dell'intera campagna elettorale: "yes we can".
Oggi ci troviamo di fronte alla cruda realta' di una scelta forse inevitabile ma che cozza contro la forzata creazione di un'icona pacifista.
La guerra e' sempre guerra, solo che quando la fanno uomini della cosiddetta sinistra progressista come D'Alema, socialisti liberal come Clinton o Blair, democratici sognatori come Kennedy o Obama, allora essa diventa espediente necessario per giungere alla pace.
Oggi potremmo cinicamente ribattezzare lo slogan elettorale con un'altra frase: "yes we can...continue the war".
E' atteso l'arrivo del presidente degli Stati Uniti, Barak Obama.
Nel frattempo, l'uomo piu' potente al mondo, il messia del tanto atteso cambiamento, ha ritirato il premio Nobel per la pace in una cerimonia tenutasi ad Oslo.
Mai tale prestigiosa onoreficenza ha creato tanto disarmante imbarazzo in colui che la riceve.
Obama di fatti, ha deciso di inviare altri 30.000 soldati nell'infinita guerra in Afghanistan, molti dei quali, non faranno piu' ritorno in patria.
Durante l'ultimo periodo di amministrazione Bush, si sarebbe gridato allo scandalo. Trasmissioni di approfondimento socio-politico, avrebbero dedicato tantissime ore sull'inutilita' di una guerra persa in partenza per la tipologia dell'ingaggio e l'impenetrabilita' del territorio - per questo motivo gia' si parla di nuovo Vietnam - Tale scelta sarebbe stata considerata scriteriata o quanto meno un vile espediente per arricchire l'industria delle armi, sicuro volano di crescita economica.
Le principali citta' dell'occidente sarebbero state invase da decine di cortei arcobaleno, organizzati da pseudo-pacifisti no-global, dove nel nome della pace si sarebbero bruciate tantissime bandiere americane precedentemente contrassegnate con una svastica nel centro.
All'improvviso con Obama, la guerra diventa giusta, utile, necessaria. Al conflitto viene data una motivizione positiva, un ruolo cruciale nella ricerca della pace. Detto da un appena insignito Nobel per la pace, sembra quasi di stare su scherzi a parte.
Lontano appare il periodo delle promesse elettorali, quando sembrava che il destino del mondo dovesse davvero cambiare - la parola change era assai ricorrente.
Lontano e' il tempo delle oratorie pubbliche, dove brulicanti masse oceaniche di convenuti esclamavano all'unisono con il candidato democratico alla Casa Bianca, quello che poi divenne lo "spot" dell'intera campagna elettorale: "yes we can".
Oggi ci troviamo di fronte alla cruda realta' di una scelta forse inevitabile ma che cozza contro la forzata creazione di un'icona pacifista.
La guerra e' sempre guerra, solo che quando la fanno uomini della cosiddetta sinistra progressista come D'Alema, socialisti liberal come Clinton o Blair, democratici sognatori come Kennedy o Obama, allora essa diventa espediente necessario per giungere alla pace.
Oggi potremmo cinicamente ribattezzare lo slogan elettorale con un'altra frase: "yes we can...continue the war".
1 commento:
Spesso penso a questo problema.... c'è un terrificante discorso psicopolitico alla base, per cui spesso l'emotività legata alle questioni di fede (religione, ideologie politiche, ecc...) spinge la gente a rifiutare qualsivoglia analisi razionale della realtà. Era la famosa storia di quegli psicologi che invertirono le posizioni di McCain ed Obama ed andarono per strada a fare domande ala gente, sicchè gli intervistati sostenitori di Obama facevano salti mortali per difendere da sinistra le posizioni conservatrici falsamente attribuite al presidente nero e viceversa i destroidi.
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